Pubblicato su Mondo Sommerso – marzo 2023
Di tempo ne è passato dal 1960, quando il dottor Antonio Maglio, pioniere delle terapie di riabilitazione, ebbe l’intuito di portare una manciata di disabili alle Olimpiadi di Roma per farli competere tra loro in quelli che solo sedici anni dopo, nel 1976, sarebbero diventate le prime Paralimpiadi disputate da 98 atleti di 16 nazioni.
All’epoca, per lo sport terapeutico, venivano tenute in considerazione solo le disabilità fisiche, e la tendenza era credere che fosse possibile un “recupero” sociale solo per coloro che si trovavano nello status di disabili a causa di un incidente o una patologia sopraggiunta in vita. Differente era per chi “nasceva” disabile con una menomazione, o per chi era affetto da una disabilità intellettiva e/o sensoriale, i quali venivano tenuti in casa o internati in istituti preposti.
Tornando allo sport paralimpico, le discipline erano poche: nuoto, atletica leggera, pallacanestro, scherma, tennistavolo e tiro con l’arco. Ci è voluto qualche anno perché in ambito sportivo il CONI riconoscesse alle disabilità intellettive una federazione tutta sua, e nel 2009 il dipartimento N°9 del comitato paralimpico, su propria delega, istituisce la FISDIR – Federazione Italiana Sport Paralimpici disabili intellettivo relazionali, che oggi vanta 22 discipline, oltre 8000 tesserati, 368 società affiliate e più di 1000 medaglie internazionali. Il cambio di rotta è avvenuto quando si è superato il concetto di sport terapia come pratica riabilitativa fisico-motoria, per passare ad un concetto di sport terapia derivante dal benessere che si prova praticando uno sport, sia essa a scopo prestazionale oppure ludico. Qui hanno trovato spazio proprio le disabilità intellettive, dove la pratica di uno sport spinge all’apprendimento facilitato delle autonomie necessarie a frequentare uno spogliatoio, a condividere un circuito di gara e ad utilizzare uno strumento; gesti utili a comprendere e saper utilizzare comportamenti, e gesti pratici che rendono la vita in società possibile, diminuendo isolamento, incomprensione, ed emarginazione.
E’ ormai noto che persone con disabilità (a prescindere da quale essa sia), che praticano regolarmente sport agonistico o non, riducono l’utilizzo di farmaci e portano sollievo familiare, anche agevolando i rapporti sociali e distogliendo (anche se per brevi momenti) il caregiver dalla responsabilità verso il disabile di cui si occupa.
Ad oggi lo sport è sì usato a scopo terapeutico, ma è anche sdoganato come pratica consueta per persone con disabilità. Vero è che siamo ormai tutti d’accordo che lo sport è terapeutico per le persone con disabilità per gli stessi motivi per cui lo è per le persone che “presumibilmente” non ne hanno.
Oggi Siamo in piena evoluzione, e molto si può ancora fare: basti pensare che – ad esempio – il tiro con l’arco, che fa parte della rosa di sport con cui sono nate le paralimpiadi, solo da un paio di anni è praticabile da persone con disabilità cognitiva.
Facciamo un po’ di ordine.
E’ luogo comune pensare alla disabilità come categoria che racchiude un’ unica ampia cerchia di persone con diverse “problematiche”, non compatibili con una vita “normale”.
Sebbene il concetto di normalità si dovrebbe basare su parametri clinici (ma è sempre più basato su un “credo” sociale), è bene chiarire che – se di disabilità si parla – quando un individuo affetto da patologia, trauma o disfunzione ha degli impedimenti o svantaggi, per colmare le differenze sociali e rispondere alle esigenze ed alle aspettative di vita, è bene dividere le disabilità in tre macro gruppi: fisiche quando la persona ha impedimenti o svantaggi fisici; sensoriali quando lo svantaggio riguarda l’assenza o la parziale assenza delle capacità sensoriali quali l’udito o la vista; e intellettivo relazionali, quando siamo in presenza di un disturbo (con esordio nel periodo dello sviluppo) che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici. In quest’ultima possiamo trovare patologie e sindromi che richiedono attenzioni e percorsi educativi molto differenti tra loro, dovuti anche alle differenti metodiche di relazione.
Tener conto della differenziazione e dalla classificazione della disabilità nella sua interezza, come risultato di una complessa interazione tra condizioni di salute di un individuo e fattori ambientali in cui vive, ha consentito di perfezionare protocolli anche sportivi per rendere un sport non solo “terapeutico” ma adattato e di conseguenza accessibile (anche al livello agonistico prestazionale) a persone nonostante la loro disabilità.
Le discipline acquatiche protagoniste di integrazione e socializzazione.
Al netto di tutto questo classificare le disabilità, per “catalogare” e riunire in gruppi omologhi, si potrebbe cadere nella estrema selezione e suddivisione che un po’ cozza con il concetto di inclusione che tanto si persegue.
Le poche discipline che richiedono una classificazione nella fase della formazione – ma non ne necessita nel sua pratica – sono le discipline acquatiche turistiche. La vela, ma ancor di più snorkeling e subacquea, seppur necessitino di alta formazione e specializzazione degli istruttori e delle scuole sportive, di programmi specifici, non necessitano sostanzialmente di settorializzare i praticanti tra disabili e non, né tantomeno tra diversi tipi di disabilità.
In questo caso, senza rischiare di cadere in loghi comuni, possiamo dire che il mare unisce, permettendo la pratica di discipline che seppur non siano prestazionali né tantomeno agonistiche, permettono la pratica non solo alla persona con disabilità ma anche a tutta la famiglia che lo accompagna, dando loro forse l’unica possibilità di condividere e praticare un hobby (o disciplina, che dir si voglia).
La subacquea e lo snorkeling sono tra le poche discipline sportive, se non le uniche, che consentono a persone con diverse disabilità di poter frequentare un ambiente altamente socializzante e stimolante, senza che si debba creare un ambiente per loro esclusivo e quindi ghettizzante.
Una attività come la subacquea, rivolta a persone con svantaggi fisici, sensoriali o intellettivi, consente di introdurle in un meccanismo che conoscerà ampie ramificazioni: turismo, attività fisica, stimolo motorio e mentale e sociale.
Turismo sportivo accessibile: la nuova frontiera da valicare.
Come tutte le cose, se lo sport paralimpico (e le discipline sportive in genere) non troveranno ragione della fattibilità economica ed indipendenza finanziaria, non potranno durare a lungo, o comunque evolvere a vantaggio delle persone con disabilità. Bisogna avere la coerenza e forse il coraggio di vedere le attività sportive – e soprattutto quelle legate al turismo – come una fetta di mercato troppo a lungo trascurata. La vera normalizzazione non è rendere la disciplina accessibile solo se coadiuvata da azioni legate all’assistenzialismo o al volontariato, ma il turismo sportivo accessibile evolverà se regolamentato ed incentivato da un mercato che crea lavoro e quindi reddito, stimolando la formazione di figure professionali qualificate, strutture ricettive adeguate, ed arricchimento di territori economicamente depressi.
Il turismo sportivo accessibile vincola piacevolmente la famiglia, e quindi moltiplica gli utenti.
Le vere difficoltà di una famiglia in cui un componente è disabile, sono la logistica e l’intrattenimento: se parliamo di una persona “normotipo” in vacanza pensiamo al suo intrattenimento, se pensiamo ad un disabile in vacanza pensiamo a come assisterlo. Qui forse è dove si dovrebbe iniziare ad intervenire per una inversione di tendenza. L’accessibilità deve essere prima nel pensiero che nell’architettura: se si iniziasse a pensare al Turista, che nonostante la sua disabilità ha il desiderio (e la necessità sociale) di svolgere le sue vacanze ricercando un location che gli consente di praticare la sua disciplina o che gli consenta di formarsi nella pratica di uno sport. Ci si concentrerebbe nel pensare non come ad assisterlo, ma come rendere fruibili i servizi turistici e sportivi. Anche gli investimenti sarebbero minori se si pensasse a costruire accessibile anziché adeguare all’accessibilità ciò che non lo è…