Intervista a Stefania Manconi e la sua ”subacquea social-pedagogica”

Di Riccardo A. la Porta

Sebbene ogni attività per cui si prova piacere e sollievo nel praticarla ha effetti benefici sull’umore e la psiche, è corretto per ogni azione disciplina arte e mestiere quando proposta a persone con fragilità viene, proposta come terapia?

È indiscutibile che la subacquea e le discipline acquatiche turistiche in genere, come lo snorkeling o sea watching  siano tra le poche attività sportive che danno la possibilità di inclusione tra normo tipo e disabili anche con limitazioni diverse, ma quanto di tutto questo può essere a servizio dell’educativa rivolta a persone con disabilità a maggior ragione se disabilità cognitiva relazionale?

Lo chiediamo alla Sociologa Pedagogista Stefania Manconi che ad Oristano opera come coordinatrice per la cooperativa sociale Sea scout che ha fatto dello “sport terapia” e delle discipline acquatiche il suo cavallo di battaglia.

: “Chi lavora con la disabilità in età adulta sa che si rende molto evidente l’importanza di attività terapeutiche, all’interno di un più ampio contesto, che tengano in considerazione le dinamiche sociali, corporee, psicologiche, economiche e culturali, che coinvolgono non solo l’utente ma anche il gruppo familiare e sociale nel quale vive e si relaziona.

La terapia è un concetto che i disabili, fin da bambini, associano al camice bianco dei medici e degli infermieri, purtroppo non sempre con una connotazione positiva.

Stiamo parlando di un lavoro orientato al recupero di un danno quando parliamo di terapia clinica, mentre per attività extra clinica si fa riferimento al Progetto di Vita, considerando la socializzazione, il tempo libero e l’inserimento lavorativo, area di progettazione e lavoro educativo.

La linea di confine tra il clinico e l’extra clinico è molto poco definita e spesso arbitraria.

Il Progetto di Vita e la conseguente terapia non può essere solo la somma di singoli interventi, da deve contenere dentro il suo scheletro portante, l’elasticità da parte degli operatori, di “vedere” la persona disabile come le molteplicità di esigenze che esprime e il riferimento alle risposte che i servizi possono dare.

Questo lavoro comporta quindi l’utilizzo di una metodologia che dovrebbe conciliare due modalità che apparentemente appaiono contrastanti: da un lato la necessità di non scadere nell’assistenzialismo passivo e, dall’altro la necessità di superare la contrapposizione tra modalità clinica ed extra clinica.

L’assistenzialismo si basa sul presupposto che la particolarità degli elementi che possono influenzare la crescita psicofisica di una persona, sana o malata che sia, perché potrebbe non permettere di individuare precise dinamiche di causa ed effetto.

Quando si parla di disabile esiste sempre la concezione di una persona “priva di”, dove l’handicap si mostra in netta supremazia, e alimenta una tendenza da parte dei parenti, degli operatori e dei servizi, che rinforza degli aspetti di dipendenza ed esula dal contesto reale.

Vi è poi un altro aspetto legato alla constatazione che nella disabilità il corpo è il principale responsabile della diversità, anche in quei casi dove la disabilità intellettiva prevale su quella motoria, il corpo acquista un valore reale diverso dalla mente.

L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di sviluppare uno spazio relazionale di partecipazione ed azione, adattata alle capacità di ogni utente, puntando al lavoro di gruppo.

Il lavoro con le famiglie permetterà poi di modificare l’immaginario collettivo nei confronti delle persone handicappate, che è caratterizzata da una parte l’opinione che la disabilità non sia sensibile agli interventi di cambiamento, dall’altra che l’unico approccio realmente valido sia l’assistenzialismo. Da qui il paradosso del disabile=il suo handicap.

La cartina tornasole degli obiettivi raggiunti non può che essere la famiglia, dove il senso di inadeguatezza, legate al vivere con un membro handicappato, mettono a dura prova la genitorialità.

Nel momento in cui la domanda della famiglia al servizio cambierà, e non sarà più mero intrattenimento, ma una condivisione del Progetto di Vita.

E’ qui che entra in maniera prepotente lo sport che riveste molta importanza nella sfera fisica, psichica e sociale delle persona con disabilità, è un’opportunità di sviluppo e maturità che porta un benessere reale.

Lo sport fa crescere la motivazione e l’autostima del disabile, e ha una forte valenza riabilitativa, fisica  e sociale.

Gli obiettivi che si possono raggiungere con la pratica sportiva sono su più livelli, i più importanti fisici e psichici e socio relazionali.

I benefici fisici che si possono raggiungere riguardano lo sviluppo dell’equilibrio e il potenziamento del tono muscolare. Si hanno miglioramenti nella resistenza, nella velocità e nella forza, si migliora la respirazione. Aumentano le abilità di gestione spazio-temporale e migliora l’autonomia motoria.

La persona disabile che pratica uno sport ha dei benefici sull’umore, per l’ansia e lo stress, vedendo aumentare la fiducia in sé stessi e il benessere emotivo.

La parte più importante della sfera socio-relazionale è sicuramente l’inclusione in quanto avviene la facilitazione dell’inserimento in un contesto sociale.

All’interno del gruppo sportivo verranno rafforzati importanti valori, come l’accettazione e la condivisione delle regole, il rispetto per gli altri, la lealtà e il sogno di un obiettivo comune da raggiungere.

Da pedagogista che si sta formando nel mondo degli sport acquatici con la Cooperativa Sea Scout Group, in particolare quello dello snorkeling e della subacquea, ho vissuto in prima persona i benefici che si possono avere

Sentire l’accoglienza dell’acqua e la sua sensazione di fiducia, anche con delle piccole privazioni sensoriali, che ho avuto la fortuna di poter sperimentare scendendo in acqua con una mascherina che mi impediva la vista e delle cuffie che non mi facevano sentire.

Ascoltare il nostro corpo, riappropriarsi di quelle sensazioni ed emozioni che si provavano da bambini, guardando il mondo con la stessa curiosità.

Tutto questo si può fare a Sea Scout dove lo sport diventa la terapia per eccellenza, dove lo spazio clinico e quello extra clinico si fondono, per la costruzione e la realizzazione del Progetto di Vita, in accordo con la famiglia e i servizi di riferimento, dove il gruppo diventa accoglienza e contenitore di emozioni ed esperienze di vita, condivise e mostrate al mondo che osserva a distanza.